Mostre, artisti e…curatori. Intervista a Sabino Maria Frassà

Sabino Maria Frassà

Mostre, artisti e…curatori. Intervista a Sabino Maria Frassà 

Riapre all’arte e alla cultura lo spazio Gaggenau DesignElementi Hub in Corso Magenta. Art Nomade Milan ha intervistato il curatore Sabino Maria Frassà.

 

Con un digital vernissage la prossima settimana riaprirà per gli amanti dell’arte il famoso showroom milanese. “Cieli Impossibili“, dell’artista e fotografo Davide Tranchina, sarà visitabile fino al 22 settembre 2020.

Ma cosa significa digital vernissage in un periodo caratterizzato dall’emergenza COVID-19, seppur meno grave rispetto ai mesi scorsi?

L’inaugurazione avverrà su una piattaforma web dove si potranno, tramite un format, porre all’artista ed al curatore domande e curiosità scaturite dal tour virtuale a 360° all’interno dello spazio.

Abbiamo già analizzato cosa comporti essere dei creativi in un’epoca così differente dalle normali prassi del mondo dell’arte.

Come affrontano questo periodo i curatori?!

Figure emblematiche del sistema, a volte famosissime (Hans Ulrich Olbrist docet), spesso criticate per la troppa esposizione mediatica a discapito degli artisti stessi (interessante il volume “Curatori d’assalto” che avevo già citato). Comunque elementi dell’ingranaggio artistico che lasciano il segno (come dimenticare Okwui Enwezor?!)

Ormai è un paio d’anni che conosco e stimo Sabino: non potevo non interpellarlo in questo clima così sui generis per l’arte e cultura.

Ecco a voi l’intervista.

– Sabino Maria Frassà, posso definirti curatore d’arte o preferisci dare alla tua professionalità un altro appellativo più completo?

In realtà sono un autodidatta. Ho una formazione economica e, inizialmente, mi occupavo soprattutto di corporate social responsability. Sì, ad oggi mi posso definire senz’altro un”curatore”: sono 7 anni che mi dedico ad esposizioni d’arte ed ho scritto una decina di libri. Però, se penso alla mia figura, non concordo su una parola così stringata. Mi piacerebbe qualificare questa professionalità in maniera più ampia: probabilmente “intellettuale” sarebbe il termine più appropriato.

Mostre, artisti e…curatori. Intervista a Sabino Maria Frassà 

Occuparsi di cultura, agire come un operatore di promozione dell’arte, non solo contemporanea, non è facile. Non è semplice nemmeno trovare il termine più adatto per definire in maniera completa l’insieme di compiti che si svolgono. Spesso esercito la funzione di direttore artistico. Non sono quel tipo di curatore che, finita l’esposizione, considera assolta la propria funzione. Mi piace seguire l’evolversi nel tempo dei progetti. In Cramum sono direttore creativo. Il mio passato da consulente per alcune aziende di moda mi ha permesso di sviluppare il lato pragmatico del mio carattere e questo pragmatismo cerco di applicarlo all’arte contemporanea. Esistono dei parametri di budget, spazio e tempo che bisogna tenere ben presenti anche nel mondo della cultura quando si organizza un evento. Bisogna dimostrare competenze di management, adoperando anche un’ottica legale, amministrativa e di business development. 

– Cosa significa essere un giovane curatore in Italia? Secondo te ci si può mantenere esercitando questa professione?

Sì, in Italia, con difficoltà e probabilmente scendendo a compromessi, si riesce a vivere di questo mestiere. In realtà io sono anche un insegnante. Credo che l’artista ed il curatore debbano essere indipendenti, senza essere ossessionati dai desiderata del mercato dell’arte. L’importante è credere nel progetto che si realizza. In Italia, molto spesso, per mantenersi in ambito culturale si deve rinunciare alla parte creativa. In qualità di direttore artistico, ad esempio, io non vendo opere d’arte. Forse è un limite, ma credo che il mio “prodotto” sia il progetto culturale stesso, il che è diverso. Sicuramente, quando noto che gli artisti che ho seguito ottengono ottimi risultati di vendita, è una grande soddisfazione.

– Sei membro del consiglio d’amministrazione del MUFOCO (Museo di Fotografia Contemporanea), direttore creativo del Premio Cramum, direttore artistico di Gaggenau DesignElementi HUB, curatore di numerose esposizioni. Hai seguito un percorso di studi particolare per arrivare a questi livelli?

Ho studiato tantissimo, anche se penso che il percorso formativo debba coniugarsi alla pratica. Quando avevo 14 anni, per quattro anni, ho aiutato mio zio che aveva un banco di frutta e verdura al mercato ortofrutticolo. È importantissimo sviluppare le proprie capacità relazionali e non solo tecniche. Inoltre è fondamentale avere una prospettiva di lungo periodo, anche dal punto di vista del guadagno. A ventiquattro anni, quando ero a Londra, ho iniziato da autodidatta ad interessarmi all’arte contemporanea: mercato, trust, società. Volevo capirne di più, colmare le lacune. Vivevo una sorta di “ansia di conoscenza”. Ho poi iniziato un corso da perito e, in seguito, ho approfondito argomenti di filosofia, storia e cultura. Avevo l’idea di unire corporate social responsability e arte, avvicinare le aziende al mondo della cultura. 

 

Sabino Maria Frassà
Mostre, artisti e…curatori. Intervista a Sabino Maria Frassà  ©BertoPoli

– Cosa ne pensi del panorama italiano dell’arte contemporanea?

È molto variegato e le risorse sono poche. La situazione economica sicuramente non giova. Riusciamo ad essere esterofili e campanilistici allo stesso tempo. Anche nel mondo dell’arte la concorrenza è enorme. “Fare l’artista” piace, i giovani creativi sono più strutturati di maestri come Franco Mazzucchelli o Paolo Scirpa, per citare dei grandi con cui ho avuto il piacere di collaborare.  A volte, però, si perde quell’autenticità che caratterizzava il periodo post bellico, gli anni che vanno dal 1950 al 1970. Il vero momento bohemienne italiano.  Adesso siamo più strutturati e meno spontanei. Un artista può vivere del suo lavoro se è bravo, ma spesso si rinuncia alla spontaneità. La domanda da porsi è: “Cosa rimarrà dell’arte contemporanea italiana nel prossimo futuro?”. È questa la grande sfida.

Mostre, artisti e…curatori. Intervista a Sabino Maria Frassà 

Io, da curatore, mi devo sempre interrogare su quali giovani artisti seguire, creativi che rimarranno nel tempo. Sembra che l’arte italiana non abbia il coraggio di guardare al medio lungo periodo. Visione che ha avuto il Museo del Novecento di Milano: la forza di tornare su determinati progetti dopo cinque o dieci anni.  A volte constato che l’arte coeva non sia poi così contemporanea: Caravaggio, ad esempio, risulta più “moderno” di molti creativi attuali. Il panorama artistico sembra ossessionato dai “giovani”: spesso, però, si rischia di “confezionare” nomi da dare in pasto al mercato. 

– A volte si pensa che il curatore d’arte indichi il concept dell’esposizione, ne strutturi la parte di ricerca, e che il lavoro manuale, di allestimento e gestione, competa ad altre figure. Sfatiamo in parte questo mito?! Elencami alcune delle difficoltà incontrate nel tuo percorso…

L’unico “lusso” che mi concedo è affidarmi a dei professionisti per quanto concerne l’allestimento delle esposizioni. Essere un curatore non prevede solo la creazione del “concept” del progetto: bisogna avere una vision chiara dello spazio e del tempo. Si deve essere pragmatici e, se ci si accorge di un elevato grado di complessità, affidarsi a chi di competenza. Il curatore è un team builder, aperto a coordinare un lavoro di squadra. É spesso un front man, ma alle sue spalle c’è un vero e proprio sistema. L’arte è un bene di lusso e durante una mostra tutto deve funzionare al meglio. Un po’ come una sfilata di moda. L’impegno presso il Gaggenau DesignElementi HUB mi ha insegnato ancora di più ad ascoltare gli altri. La propria vision si deve adattare. Il motto “genio e sregolatezza” non è più perseguibile. 

–  A questo proposito, ci racconti qualcosa su “Cieli Impossibili” che inaugurerà tra poco proprio da Gaggenau DesignElementi Hub?

Quest’anno ho voluto portare in showroom una riflessione sul significato di contemporaneità nell’arte. Per la fotografia ho scelto Davide Tranchina perché è un “Maestro”. Ha ripreso l’off camera, ovvero le tecniche usate decenni fa, per farle diventare nuovo strumento espressivo. È quindi riuscito a nutrirsi del passato per creare il futuro. Questo, per me, significa essere contemporanei. Nello specifico “Cieli Impossibili” l’abbiamo costruita insieme perché Tranchina utilizza lo scatto non per restituire l’immagine “retinica”, ma quella interiore.

Davide Tranchina
Mostre, artisti e…curatori. Intervista a Sabino Maria Frassà  “Cieli Impossibili”, Davide Tranchina Gaggenau DesignElementi HUB, 9/07-22/09/2020

– L’inaugurazione si svolgerà solo in maniera “digitale”: la mancanza dell’incontro con i visitatori come viene vissuta da un curatore?

In realtà non è una mancanza, ma, insieme a Erica Sagripanti, brand manager di Gaggenau, abbiamo trasformato la visita digitale in un’opportunità. Chi vorrà verrà a vedere la mostra e sono state già tante le richieste. L’assembramento non era pensabile e il digitale ha compensato solo l’aspetto inaugurale di incontro. Darà, però, la possibilità, anche ai tanti che visiteranno “Cieli Impossibili“, di fruire di contenuti integrativi inediti. Quindi, ogni visitatore reale godrà di una sorta di audio-guida che verrà svelata pienamente durante l’inaugurazione, a cui vi invitiamo, e che integrerà l’esperienza artistica progettata da Gaggenau & Cramum.

– L’emergenza sanitaria, derivante dall’epidemia causata dal COVID-19, ha influito anche sulle modalità di svolgimento del Premio Cramum, edizione 2020?

Una parte di Cramum voleva che il premio fosse in modalità digitale. Io mi sono opposto. Il Premio Cramum, per fortuna, è caratterizzato da alti numeri e l’inaugurazione e tutto ciò che c’è prima, come l’incontro tra giurati e artisti, è una parte fondamentale. Il Premio Cramum non si riduce alla mostra, ma è costituito dalle relazioni e dal vivere un’esperienza che ti può cambiare la vita. Per Cramum, a differenza di Gaggenau, il digitale sarebbe stato uno strumento accrescitivo e non compensativo. Aspettiamo settembre per confermare modalità e tempi dell’8° edizione, che si terrà nel 2021, e che permetterà una deroga al limite di età per non escludere gli artisti per cui il 2020 era l’ultimo anno in cui poter partecipare, per vincoli previsti dal bando tradizionale.

 

Esperire la resilienza giocando con il linguaggio: Lorenzo Marini

Lorenzo Marini

Esperire la resilienza giocando con il linguaggio: Lorenzo Marini

Immagini versus lingua scritta, arte che migliora la vita, consigli per i giovani creativi: abbiamo fatto quattro chiacchiere con l’artista Lorenzo Marini durante questo periodo di emergenza

Nel 2010, dopo anni passati nel settore pubblicitario, Lorenzo Marini esce allo scoperto e rende pubblico il suo innato talento per la creazione. Caposcuola del movimento “Type Art, tenuto a battesimo presso il milanese Palazzo della Permamente, espone alla  57° Biennale d’arte di Venezia. Una vita passata tra Milano, Los Angeles e New York, con puntate per esporre ad Art Basel Miami e a Dubai. Ma un grande artista come passerà questo periodo di crisi, caratterizzato dall’imperativo #iorestoacasa?

Lorenzo Marini lo svela ad Art Nomade Milan.

Quale è, secondo lei, il significato della scrittura per le giovani generazioni?

Il linguaggio contemporaneo sta cambiando molto rapidamente grazie, o per colpa, della necessità di parlare sempre più spesso a livello globale, planetario. Il mito della velocità e della contemporaneità ci ha spinto e ci spingerà alla semplificazione. La notizia non è più verticale e profonda, ma orizzontale e veloce. Easy, si direbbe, con tutte le conseguenze possibili. La convergenza multimediale, un computer che diventa televisione che diventa giornale, produce un linguaggio capace di sopravvivere a questa contaminazione, diventando veloce, frammentato, sincopato. Stupidamente easy. YouTube ha creato spezzatini visivi, Whatsapp ha creato telegrammi verbali, i social hanno creato frammenti di immagini condivise quasi tutte simili, grazie agli orribili filtri, che sono nati per differenziare e sono rimasti per omologare. Le nuove generazioni hanno, come dice il titolo “Out of Words” della mostra milanese da Gaggenau DesignElementi Hub, “perso le parole” e quella ricchezza-complessità della sintassi. In questo senso il linguaggio delle nuove generazioni è sempre più visivo, ma un visivo easy: stupido, un po’ banale e appiattito.

Lorenzo Marini
Esperire la resilienza giocando con il linguaggio: Lorenzo Marini Uno scatto tratto dalla mostra “Out of Words” in corso presso Gaggenau DesignElementi Hub

Davvero le immagini, le emoticon, rischiano di sostituire del tutto le parole? Un ritorno ai pittogrammi insomma….  Lorenzo Marini

La parte denotativa del nostro discorso digitale è diventata l’immagine. La parola scritta conta poco, in tempo di pensiero leggero.  Lo spazio interpretativo della frase è l’emoji. L’allegato è più importante del messaggio stesso. Così come il marchio diviene più importante del prodotto stesso. Il meme, la foto, la faccina si fanno parte integrante del parlare, come la gestualità durante i nostri discorsi. Anche nel linguaggio del commercio il marchio visivo è diventato il sostitutivo del verbale, da Nike a Apple, che usa l’immagine della mela e non la parola “apple”. Abbiamo sempre avuto i simboli attorno a noi. Basta pensare alla segnaletica stradale. Un’immagine è molto più veloce nel comunicare che una parola.

L’arte può ancora cambiare le nostre vite, aggiungervi un senso più profondo?

Una canzone, un libro o un’opera d’arte non possono mai cambiare una vita. La possono però migliorare. Innalzare. Arricchire. Il senso profondo è ricercato da pochi. Il termine surf ci racconta proprio questo: stare in superficie. La profondità si trova nel silenzio, ma ai più il silenzio fa paura. Abbiamo sempre bisogno di rumori, di suoni, di radio accesa, di media on line. Per nascondere il vuoto, abbiamo bisogno di rumori. Eppure il futuro sarà obbligatoriamente più profondo. Dovremo imparare a conoscere. Andare a vedere una mostra senza sapere nulla dell’artista non servirà a molto. Sarebbe come andare a vedere le vetrine nei negozi. “Si può amare solo ciò che si conosce” diceva Sri Yogananda. Dobbiamo imparare ad approfondire, se vogliamo amare.

Tanti anni passati in campo pubblicitario, nascondendo ai più la sua magistrale produzione di opere. Come mai questa scelta?  Lorenzo Marini

Ho dipinto per molti anni senza il bisogno di mostrare i miei lavori a nessuno. Lavorando come creativo nella comunicazione sono sempre on stage, sempre esibito, sempre condiviso, sempre “pubblico”, poiché questa è la natura della pubblicità. Brillantini di immagine su prodotti tutti uguali, dove la differenza lo fa il racconto, la scena, la storia, la musica, i colori. Così come il giorno è fatto per l’azione, la notte è fatta per la contemplazione. Il mio giorno era in technicolor, la notte in silenzio. I mezzi del giorno sono le riunioni e i computer, i mezzi della notte sono le tele. Ho incontrato un importante art manager che ha impiegato due anni a convincermi a fare la prima mostra. Sono grato a Milo Goj per questo trampolino. E a Di Pietrantonio per aver scritto il primo pezzo critico. E a Georges Berger, gallerista di New York, per avermi lanciato negli Usa.

Resilienza ai tempi del #iorestoacasa e dell’emergenza COVID-19. Ci racconta come è nata la sua ultima opera “C19SH” e ci descrive il suo significato?

C19SH” (acronimo di Covid 19 Stay Home ndr) è un’opera su rame che interpreta l’alfabeto così come lo conosciamo noi, in modo contestualizzato. Non puoi non vivere il tuo tempo. Non puoi non raccontarlo. E il mio Alphatype lo racconta a frammenti, come tessere diverse di un unico mosaico. La “Q” è una bomba, perché tutto è esploso rapidamente. La “C” diventa sigla del virus, aggiungendo il numero 19. Nella “S” le due frecce, invece di uscire verso l’esterno, vanno verso l’interno. La lettera “H” simboleggia la casa. La “B” è una bocca e simboleggia il bacio proibito di questi tempi. La “Z” è il finale di questa storia. Che non può che essere positivo.

Lorenzo Marini
Esperire la resilienza giocando con il linguaggio: Lorenzo Marini          L’opera “C19SH”.

Lo scorso anno l’installazione “AlphaCube”, presentata per la DesignWeek 2019 da Ventura Project, è stata esposta a Dubai. Come ha trovato il panorama artistico culturale degli Emirati Arabi Uniti? Lorenzo Marini

L’installazione “Alphacube” è stata un successo inatteso. È un’opera immersiva, un cubo di tre metri per tre che ti accoglie, ti abbraccia, ti avvolge. Cinque pareti di lettere senza parole, accompagnate da un suono di grammatica che diviene musica. Devo questo successo al curatore Sabino Maria Frassà, che ha fortemente voluto presentarlo al Fuorisalone durante la Design Week 2019, in collaborazione con Ventura Project. Da lì poi “Alphacube” è stato ospitato a Venezia da Tetis in occasione dell’ultima Biennale, a Spoleto per il Festival dei Due Mondi, a Dubai e infine a Los Angeles durante il LA Art Show, al Convention Center. La cosa strana era che c’era sempre la fila per andare dentro il cubo, per farsi i selfie. Pensavo di aver creato un’opera immersiva, in realtà ho scoperto che è diventata interattiva. Gli Emirati Arabi? Ho capito che il linguaggio è come il pane. C’è in tutto il mondo, ma ovunque ha una forma e un gusto diverso. Ecco, avrei dovuto aggiungere delle lettere arabe. Inizierò a studiare anche quelle.

In attesa della riapertura al pubblico dell’esposizione “Out of Words” presso Gaggenau DesignElementi HUB, ci racconta la nascita del suo iconico ciclo “Alphatype”?

Le cose nascono semplici. Le idee sono semplici: è l’uomo che è complicato. “Alphatype” è nato per caso. Come la maggioranza dei bambini nel mondo. Avevo completato un lavoro di tre anni, creando 5 alfabeti completi. Immagina il valore di ogni marchio-lettera se ci fosse stato un committente dietro. Di questi 150 type ne ho scelti metà da portare su tela o su acciaio, in formato 100×100 cm. Alla fine dei tre anni, ho fotografato queste opere e ho iniziato a riprodurle su formati più piccoli, mettendole assieme. Il lavoro di Alighiero Boetti, ovviamente, è eccezionale, ma è lontanissimo da me. Io trovo ispirazione maggiore nell’arte orientale, in un maestro come Xu Bing ed il suo Book from the Sky. Perciò il mio interesse in questa combinazione di lettere era la descrizione della perdita della parola, non il ritrovare un messaggio nel quadro. Le mie lettere formano “non-parole” senza significato, discorsi non-sense composti da successioni di lettere-immagini. Il mio modus operandi è perciò formare combinazioni nuove, seguendo la legge del caso anziché quella della logica, usando la stampa digitale su grandi formati e rilavorandoci successivamente per ulteriori stratificazioni.

Lorenzo Marini

Poi, con il curatore Sabino Maria Frassà, già prima di “AlphaCube”, si parlava spesso del mio lavoro di linguaggio e comunicazione, dell’ascesa dell’emoticon e dell’ultima trasformazione della comunicazione.  Così lui mi ha chiesto perché non trasportassi queste mie riflessioni su tela: in questo modo è nata la mostra milanese “Out of Words“. Era perfetta per il nuovo ciclo di mostre Gaggenau On Air, che esplora appunto come “il presente sia il futuro del passato”. Ora non so cosa mi capiterà e cosa inventerò, ma è il bello della vita e dell’arte. Renoir ha detto: “Una mattina, siccome uno di noi aveva finito il nero, si iniziò ad usare il blu. Così è nato l’impressionismo.”

Un consiglio per i giovani artisti?  Lorenzo Marini

Solo un consiglio: non mollare mai. Never give up. Un santo è un peccatore che non si è mai arreso.