Esperire la resilienza giocando con il linguaggio: Lorenzo Marini
Immagini versus lingua scritta, arte che migliora la vita, consigli per i giovani creativi: abbiamo fatto quattro chiacchiere con l’artista Lorenzo Marini durante questo periodo di emergenza
Nel 2010, dopo anni passati nel settore pubblicitario, Lorenzo Marini esce allo scoperto e rende pubblico il suo innato talento per la creazione. Caposcuola del movimento “Type Art“, tenuto a battesimo presso il milanese Palazzo della Permamente, espone alla 57° Biennale d’arte di Venezia. Una vita passata tra Milano, Los Angeles e New York, con puntate per esporre ad Art Basel Miami e a Dubai. Ma un grande artista come passerà questo periodo di crisi, caratterizzato dall’imperativo #iorestoacasa?
Lorenzo Marini lo svela ad Art Nomade Milan.
– Quale è, secondo lei, il significato della scrittura per le giovani generazioni?
Il linguaggio contemporaneo sta cambiando molto rapidamente grazie, o per colpa, della necessità di parlare sempre più spesso a livello globale, planetario. Il mito della velocità e della contemporaneità ci ha spinto e ci spingerà alla semplificazione. La notizia non è più verticale e profonda, ma orizzontale e veloce. Easy, si direbbe, con tutte le conseguenze possibili. La convergenza multimediale, un computer che diventa televisione che diventa giornale, produce un linguaggio capace di sopravvivere a questa contaminazione, diventando veloce, frammentato, sincopato. Stupidamente easy. YouTube ha creato spezzatini visivi, Whatsapp ha creato telegrammi verbali, i social hanno creato frammenti di immagini condivise quasi tutte simili, grazie agli orribili filtri, che sono nati per differenziare e sono rimasti per omologare. Le nuove generazioni hanno, come dice il titolo “Out of Words” della mostra milanese da Gaggenau DesignElementi Hub, “perso le parole” e quella ricchezza-complessità della sintassi. In questo senso il linguaggio delle nuove generazioni è sempre più visivo, ma un visivo easy: stupido, un po’ banale e appiattito.
– Davvero le immagini, le emoticon, rischiano di sostituire del tutto le parole? Un ritorno ai pittogrammi insomma…. Lorenzo Marini
La parte denotativa del nostro discorso digitale è diventata l’immagine. La parola scritta conta poco, in tempo di pensiero leggero. Lo spazio interpretativo della frase è l’emoji. L’allegato è più importante del messaggio stesso. Così come il marchio diviene più importante del prodotto stesso. Il meme, la foto, la faccina si fanno parte integrante del parlare, come la gestualità durante i nostri discorsi. Anche nel linguaggio del commercio il marchio visivo è diventato il sostitutivo del verbale, da Nike a Apple, che usa l’immagine della mela e non la parola “apple”. Abbiamo sempre avuto i simboli attorno a noi. Basta pensare alla segnaletica stradale. Un’immagine è molto più veloce nel comunicare che una parola.
– L’arte può ancora cambiare le nostre vite, aggiungervi un senso più profondo?
Una canzone, un libro o un’opera d’arte non possono mai cambiare una vita. La possono però migliorare. Innalzare. Arricchire. Il senso profondo è ricercato da pochi. Il termine surf ci racconta proprio questo: stare in superficie. La profondità si trova nel silenzio, ma ai più il silenzio fa paura. Abbiamo sempre bisogno di rumori, di suoni, di radio accesa, di media on line. Per nascondere il vuoto, abbiamo bisogno di rumori. Eppure il futuro sarà obbligatoriamente più profondo. Dovremo imparare a conoscere. Andare a vedere una mostra senza sapere nulla dell’artista non servirà a molto. Sarebbe come andare a vedere le vetrine nei negozi. “Si può amare solo ciò che si conosce” diceva Sri Yogananda. Dobbiamo imparare ad approfondire, se vogliamo amare.
– Tanti anni passati in campo pubblicitario, nascondendo ai più la sua magistrale produzione di opere. Come mai questa scelta? Lorenzo Marini
Ho dipinto per molti anni senza il bisogno di mostrare i miei lavori a nessuno. Lavorando come creativo nella comunicazione sono sempre on stage, sempre esibito, sempre condiviso, sempre “pubblico”, poiché questa è la natura della pubblicità. Brillantini di immagine su prodotti tutti uguali, dove la differenza lo fa il racconto, la scena, la storia, la musica, i colori. Così come il giorno è fatto per l’azione, la notte è fatta per la contemplazione. Il mio giorno era in technicolor, la notte in silenzio. I mezzi del giorno sono le riunioni e i computer, i mezzi della notte sono le tele. Ho incontrato un importante art manager che ha impiegato due anni a convincermi a fare la prima mostra. Sono grato a Milo Goj per questo trampolino. E a Di Pietrantonio per aver scritto il primo pezzo critico. E a Georges Berger, gallerista di New York, per avermi lanciato negli Usa.
– Resilienza ai tempi del #iorestoacasa e dell’emergenza COVID-19. Ci racconta come è nata la sua ultima opera “C19SH” e ci descrive il suo significato?
“C19SH” (acronimo di Covid 19 Stay Home ndr) è un’opera su rame che interpreta l’alfabeto così come lo conosciamo noi, in modo contestualizzato. Non puoi non vivere il tuo tempo. Non puoi non raccontarlo. E il mio Alphatype lo racconta a frammenti, come tessere diverse di un unico mosaico. La “Q” è una bomba, perché tutto è esploso rapidamente. La “C” diventa sigla del virus, aggiungendo il numero 19. Nella “S” le due frecce, invece di uscire verso l’esterno, vanno verso l’interno. La lettera “H” simboleggia la casa. La “B” è una bocca e simboleggia il bacio proibito di questi tempi. La “Z” è il finale di questa storia. Che non può che essere positivo.
– Lo scorso anno l’installazione “AlphaCube”, presentata per la DesignWeek 2019 da Ventura Project, è stata esposta a Dubai. Come ha trovato il panorama artistico culturale degli Emirati Arabi Uniti? Lorenzo Marini
L’installazione “Alphacube” è stata un successo inatteso. È un’opera immersiva, un cubo di tre metri per tre che ti accoglie, ti abbraccia, ti avvolge. Cinque pareti di lettere senza parole, accompagnate da un suono di grammatica che diviene musica. Devo questo successo al curatore Sabino Maria Frassà, che ha fortemente voluto presentarlo al Fuorisalone durante la Design Week 2019, in collaborazione con Ventura Project. Da lì poi “Alphacube” è stato ospitato a Venezia da Tetis in occasione dell’ultima Biennale, a Spoleto per il Festival dei Due Mondi, a Dubai e infine a Los Angeles durante il LA Art Show, al Convention Center. La cosa strana era che c’era sempre la fila per andare dentro il cubo, per farsi i selfie. Pensavo di aver creato un’opera immersiva, in realtà ho scoperto che è diventata interattiva. Gli Emirati Arabi? Ho capito che il linguaggio è come il pane. C’è in tutto il mondo, ma ovunque ha una forma e un gusto diverso. Ecco, avrei dovuto aggiungere delle lettere arabe. Inizierò a studiare anche quelle.
– In attesa della riapertura al pubblico dell’esposizione “Out of Words” presso Gaggenau DesignElementi HUB, ci racconta la nascita del suo iconico ciclo “Alphatype”?
Le cose nascono semplici. Le idee sono semplici: è l’uomo che è complicato. “Alphatype” è nato per caso. Come la maggioranza dei bambini nel mondo. Avevo completato un lavoro di tre anni, creando 5 alfabeti completi. Immagina il valore di ogni marchio-lettera se ci fosse stato un committente dietro. Di questi 150 type ne ho scelti metà da portare su tela o su acciaio, in formato 100×100 cm. Alla fine dei tre anni, ho fotografato queste opere e ho iniziato a riprodurle su formati più piccoli, mettendole assieme. Il lavoro di Alighiero Boetti, ovviamente, è eccezionale, ma è lontanissimo da me. Io trovo ispirazione maggiore nell’arte orientale, in un maestro come Xu Bing ed il suo Book from the Sky. Perciò il mio interesse in questa combinazione di lettere era la descrizione della perdita della parola, non il ritrovare un messaggio nel quadro. Le mie lettere formano “non-parole” senza significato, discorsi non-sense composti da successioni di lettere-immagini. Il mio modus operandi è perciò formare combinazioni nuove, seguendo la legge del caso anziché quella della logica, usando la stampa digitale su grandi formati e rilavorandoci successivamente per ulteriori stratificazioni.
Lorenzo Marini
Poi, con il curatore Sabino Maria Frassà, già prima di “AlphaCube”, si parlava spesso del mio lavoro di linguaggio e comunicazione, dell’ascesa dell’emoticon e dell’ultima trasformazione della comunicazione. Così lui mi ha chiesto perché non trasportassi queste mie riflessioni su tela: in questo modo è nata la mostra milanese “Out of Words“. Era perfetta per il nuovo ciclo di mostre Gaggenau On Air, che esplora appunto come “il presente sia il futuro del passato”. Ora non so cosa mi capiterà e cosa inventerò, ma è il bello della vita e dell’arte. Renoir ha detto: “Una mattina, siccome uno di noi aveva finito il nero, si iniziò ad usare il blu. Così è nato l’impressionismo.”
– Un consiglio per i giovani artisti? Lorenzo Marini
Solo un consiglio: non mollare mai. Never give up. Un santo è un peccatore che non si è mai arreso.